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Area di Ricerca & Autodifesa - Intervista esclusiva a Stratos, Fariselli e Tofani
 

Area si trasforma, Area diventa gruppo aperto. Stratos, Fariselli e Tofani restano i soli elementi fissi: pronti ad affrontare le più diverse esperienze, ma anche le polemiche. Dopo l'accoglienza concitata e controversa di Maledetti si discute di nuovo moltissimo (a sproposito e a proposito) sui vecchi e i nuovi enigmi: la progettazione politico-musicale, le forme rinnovate di esibizione dal vivo, l'improvvisazioni, le contraddizioni, i diversi linguaggi, l'elaborazione del fumetto « Area », i rapporti con gli altri musicisti e con il pubblico.

I tre Area si difendono e a volte contrattaccano, spiegano i loro progetti e le difficoltà che continuano ad incontrare. Ma soprattutto confermano — anche agli occhi dei loro critici più accaniti — la caparbietà con cui da sempre conducono la loro battaglia di ricercatori. Prima di tutto alla ricerca di se stessi.

DEMETRIO STRATOS


D. - Come diventa cantante Demetrio ?

R. - Ho iniziato a cantare per caso, ho iniziato come pianista. Ho studiato al conservatorio di Alessandria d'Egitto la fisarmonica a bottoni e da lì ho iniziato a studiare il piano, come auto-didatta.

Non riuscivo evidentemente a suonare Mozart vista la mia antipatia verso la musica classica, che quando si è piccoli penso sia un fatto generale.

La musica classica è una castrazione per tutti quelli che studiano all'età di 9-11 anni. A 19 anni arrivo in Italia sapendo suonare il pianoforte; in quel periodo accompagnavo un cantante tipo Peppino di Capri, parlo di 10-11 anni fa. Una sera visto che Il cantante era arrivato malridotto per un incidente, mi son trovato a sostituirlo, e ho dovuto cantare tutta la sera quello che faceva lui, più altre cose, quindi ho cominciato facendo Little Richard e quelle cose li.

Chiaramente funzionò quella sera lì, io credo molto nel caso...

Poi, come seconda esperienza, c'è stato il Santa Tecla, sempre a Milano, dove mi sono fatto le ossa per sei mesi cantando ogni sera dalle 9 alle 3 del mattino, non stop; allora si facevano Animals, Ray Charles, blues in genere. Quindi questo ha contribuito ad allenare i miei muscoli fono articolatori, e per 3.500 lire a sera...

Poi comincia l'esperienza con i Ribelli, che è stata abbastanza interessante, tutto sommato. Incominciava il genere soul che allora non era molto famoso (lo è certamente più adesso) e I Ribelli erano il primo gruppo, staccatisi da Celentano, a proporre in Italia questo tipo di musica.

In quel momento ho vissuto una esperienza molto bella, con Stewie Wonder a Sanremo; noi suonavamo al Whisky a Go Go, parlo del 1967, per sei giorni. Wonder era venuto per il festival della canzone, e lo bocciarono subito...

Rimase ugualmente, e si ritrovò nel locale dove suonavamo noi, venne tutte le sere e cantavamo assieme fino al mattino, facevamo un casino incredibile. Questo mi è servito molto da un punto di vista umano, e anche per capire a fondo la qualità di questo genere musicale. Tutti ammiriamo oggi Stevie Wonder: è ancora un grande.

Più tardi ho passato un po' di tempo in America, suonando e cantando anche per gli emigranti. Suonare e cantare per un cantante è un fatto estremamente importante per la sua crescita, la musica in sostanza sta in fondo a tutta l'esperienza.

Con il 10 aprile '70 c'è Io scioglimento dei Ribelli. Pensa che bello scherzo...

E, poi Capiozzo, finalmente, mi porta un po' di Blood Sweat & Tears e un po' di Coltrane. E così partiamo insieme per gli Area.

D. - Tu e Giulio Capiozzo siete stati i due "soci fondatori" di Area ?

R. - Si, suonavamo assieme prima che Area nascesse, questo per un'anno e mezzo circa; ce ne sono successe di tutti i colori. Abbiamo avuto con noi musicisti inglesi, spagnoli, in quel periodo

ce n'erano molti in giro per l'Italia. Facevamo molto lavoro da balera, però cercavamo anche un po' di gente disposta a fare « del free », che allora era una roba a livello di cantina.

D. - In questo cambiamento giocava il suo ruolo il mito jazzistico. oltre che l'aspetto ideologico del free..

R. - Si, come improvvisazione, come liberalizzazione della musica, dell'individuo, trovammo Busnello, allora, e anche un chitarrista ungherese Lambitzi, molto bravi. Cominciammo a suonare a provare moltissimo, parlammo con Mamone, ed ebbero inizio un numero incredibile di tournee, come complesso spalla, con Rod Stewart e i Faces, i Gentle Giant, per raccogliere fischi più che consensi.

Dal '72 ci siamo accorti di una certa crescita nell'ambito free, l'abbandono di molte ingenuità. Con la maturità, cercavamo di vederci chiaro: trovammo degli agganci con la musica mediterranea, araba, greca, dell'area balcanica.

D. - Il vostro retroterra comunque è da considerarsi tipicamente rock.

R. Certo, io e Giulio venivamo direttamente dal pop. Tutti venivamo dal pop: solo Busnello era veramente padrone del linguaggio jazz.

Il nostro aggancio con il jazz era stato il blues. II massimo del jazz per noi allora erano i Blood Sweet & Tears. Poi il gruppo ha preso un'altra piega: il discorso politico è nato appena è entrato Fariselli, alcuni di noi venivano dall'università... Tutti avevamo questa passione politica di base. E così il discorso musicale è maturato assieme a quello politico.

Arriviamo al primo disco, Arbeit Macht Frei, con Patrick Djivas, e c'erano molte cose condensate: la voglia di rompere barriere anche se non con molta chiarezza, cercando di coagulare tutte le nostre esperienze precedenti e superarle contemporaneamente.

La chiarezza è arrivata con Cage, attraverso Hidalgo e Marchetti: abbiamo imparato che il non essere è », questo riferito anche all'extramusicale.


... E poi l'incontro con la letteratura Fluxus. (Sassi conosceva Cage da quindici anni, credo), tutto questo è stato molto importante. Per me è stato fondamentale. Arriviamo così al secondo : disco, Caution Radiation Area, dove il caso ha giocato molto, e capire cosa sia il caso è stato determinante per la nostra evoluzione.

Questo era frutto dell'improvvisazione, e da questa si ricavavano i momenti più interessanti, parlo anche da un punto di vista vocale, spesso momenti insospettati, inediti.

Questa ricerca sul caso ha un esempio significativo nell'esperimento realizzato durante il nostro concerto all'ultimo Festival del Parco Lambro: l'esecuzione di Caos parte prima con la partecipazione dei pubblico che causava azioni del tutto casuali, nel sintetizzatore di Tofani, mediante contatto delle mani.

L'aggiungere, il togliere il contatto, il numero di persone coinvolte al momento, determinavano questo caos imprevedibile, però controllato, ma pur sempre casuale.

La musica è in questo caso secondaria, è un pretesto per innestare altri meccanismi.

La radicalizzazione estrema, sempre parlando di caso », l'abbiamo con Caos, parte seconda, quello del concerto alla Università Statale di Milano, quella ancora che compare nel nostro ultimo disco, Maledetti.

D. - Ognuno di noi ha dei modelli che ha seguito o segue culturalmente. Nel tuo caso si possono fare degli esempi ?

R. - lo, non ho avuto dei veri modelli (di tipo ideologico), ho avuto, piuttosto, dei passaggi, dei movimenti frequenti: sono psicomotorio.

Nei primi anni i modelli più consistenti erano quelli del soul (Ray Charles soprattutto); e poi le radici del blues (pensa a cantanti come Jimmy Wither-spoon) che sono indispensabili per darti il cosiddetto « feeling ». E, poi Coltrane, che ho sempre ammirato, ma lui fa parte di tutti, ha insegnato a tutti.

Da Coltrane sono passato repentinamente a Cage. Cage, però non è stata solo una scelta intellettuale, infatti mi sono reso conto che inconsciamente avevo la sua stessa visione del mondo. Cage, è stato un momento molto importante della mia vita, in cui ho capito cosa c'è al di là del canto, della musica abolendo qualsiasi barriera tra vita e musica.

Ho anche amato molto la musica mediterranea e balcanica che non è soltanto molto ricca emotivamente, ma anche strutturalmente. II mio ultimo trip » è il teatro coreano, che si chiama pansori » ed ha degli elementi vocali e strumentali veramente incredibili.

Così come il teatro e la musica giapponese. Si tratta di forme di arte totali dove il canto è legato al gesto, e viceversa, in un coagulo quotidiano.

D. - Nell'ambito della produzione Area, quale è la cosa a cui sei più attaccato.

R. - Attaccamento non direi perché attaccamento forse è ideologia. Comunque, il disco più importante per me, è stato il secondo (Caution Radiation Area), ma anche l'ultimo lo è, proprio per la presenza di quadri diversi.

E qui qualche critico non concorda; ma io ribadisco l'importanza di un discorso critico alla base, alla necessità di ridiscutere tutto, per non essere legati alla ideologia della improvvisazione, per riuscire a progettare totalità.

Non mi aggrappo come vedi, diciamo piuttosto che ci sono delle cose che mi stanno a cuore. Per esempio il concerto della Statale è una di queste, perché siamo stati martellati da tutti. Essere martellati da tutti è una cosa molto bella perché ti spinge alla critica, quindi ti lancia. Un'altra cosa che mi sta a cuore ultimamente, è il vivere l'improvvisazione, non come risultato estetico formale ma come pensiero di base che può essere ripreso, riadattato da altri musicisti ma non muore in un disco.

D. - E il momento dei progetti singoli, individuali, cosa rappresentano ?

R. - Io ho già fatto il mio primo disco in solo, Metrodora, Tofani ha già registrato il suo, Fariselli anche. Proprio ora sto preparandone un secondo, che è più importante del primo, naturalmente, anzi il primo mi sembra adesso riascoltandolo un «disco pop», del resto sono cose ormai vecchie, di due anni fa.

Oggi mi sento più preparato in materia vocale. Non vedo solo l'aspetto creativo della cosa e lo studio delle nuove possibilità, mi interessa sapere che cosa è la voce, conoscere da dove nasce.

Se uno compra un clarinetto, lo smonta, vede come funziona il meccanismo, al limite ne segue la fabbricazione, capirà qualcosa di più delle sue possibilità; la voce invece è una cosa a parte, non si sa da dove venga, questo in
un senso fisiopatologico, anche; quindi bisogna andar per tentativi, fare continui esperimenti.

Sono comunque molto pochi gli esempi di autentica riscoperta della voce. Poi bisogna vedere come affrontano il problema della vocalità; nel jazz si tratta di strumentalizzare la voce, seguire la voce degli altri strumenti, un sassofono ad es., con variazioni, bei suoni, questo riferito soprattutto alle donne, che hanno più possibilità di salire con la voce, poi c'è l'uso « classico », musica contemporanea inclusa. penso che sia molto utile sperimentare vari campi, avere tutti i muscoli fonatori allenati.

Troppo spesso uno rimane chiuso nel suo ambito e basta, anche una Jeanne Lee fatica ad uscire da un ambito jazzistico, Cathy Barberian, forse la più grossa cantante vivente, nonostante l'età, si limita all'ambito contemporaneo. La cosa più importante allora è fare cose diverse, cantare con Steve Lacy, con Markopulos (che è un incredibile musicista di musica popolare), fare delle cose con Cage, vivere varie esperienze.

D. - Di tanto in tanto ci sono momenti in cui la tua voce mi infastidisce; per la pronuncia e talvolta per un uso sbracatamente rock che tu ne fai, questo lo avverto con Area, non in Metrodora, nei lavori sperimentali. Li non ci sono sbavature...

R. - Non ho mai curato la pronuncia perché non mi ha mai interessato, poi perché penso che la pronuncia corretta e la lingua siano grosse castrazioni, per il cantante. Ho questa pronuncia perché sono greco, non sento le doppie, poi ho abitato per diverso tempo in Romagna.

Del resto c'è una differenza enorme tra il mio lavoro in Metrodora e quando si canta invece con degli strumenti; infatti Daniel Charles ha pensato a me per
esemplificare due vocalità diverse, durante un « Festival della Voce » che si farà a Parigi tra non molto.

In Metrodora esiste un microcosmo di armonici che chiaramente, all'interno di un gruppo, non è più possibile esprimere perché la voce viene a contatto con le frequenze di altri strumenti.

D. - Veniamo all'aspetto politico-ideologico di Area: una vostra caratteristica consiste nella attenzione progettuale, nella preparazione teorica del prodotto.

R. - Prima di tutto Area ha deciso sin dall'inizio di vivere in mezzo ai problemi, non fuggirne, ad es. abbiamo fatto centinaia di concerti per il circuito alternativo in condizioni incredibili... A noi interessa trasmettere contenuti, e significati intensi, che rimangano, che facciano riflettere. Fare quindi cose che molte volte sembrano incomprensibili ma che significhino qualcosa; non come Cocciante che ti porge le cose in un piatto d'argento, che però durano lo spazio del concerto, poi finisce lì.

D. - Non ti sembra che talvolta l'aspetto ideologico sia eccedente rispetto la forma musicale ?

R. - Può sembrare, ma può anche aiutare a riflettere, non è importante essere l'eccelso musicista...

Ricordati che Cage è in fondo un mediocre pianista... Poi c'è da dire che su disco alcune cose non sono totalmente comprensibili. lo difendo accanitamente lo spazio esecutivo: Area è un gruppo che si muove bene dal vivo.
Quando hai un pubblico davanti sei più portato a proporre, a scontrarti con esso, io credo nello scontro; la formula eraclitea che dallo scontro nasce la creatività, non è gratuita.

Penso tuttavia che le cose migliori che Area ha fatto non siano state capite, anche il progetto " fantasociopolitico » del nostro ultimo disco non sarà facilmente compreso: se la stanno già menando sui singoli brani senza pensare al quadro complessivo. Certo, ci possono essere delle contraddizioni, queste servono, per una crescita evolutiva.

Ci saranno altre tappe, cambieranno altre cose, tieni ancora presente che io fino a 25 anni e o uno zombie: Daniele Caroli dice che fino al 71 io cantavo come Tom Jones, è molto vero. Ma é anche vero che da Tom Jones
Metrodora c'è un abisso.

D. - Non trovi che le esperienze in solo, corrispondano ad un bisogno di « musica oltre che alla voglia di trovare anche strade personali?

R. - Certo, il concetto di gruppo autoctono è superato, tendiamo ora a dilatare, e comporre diversamente il gruppo a seconda delle occasioni; perché Lacy, perché Lytton e i Txalaparta, perché il quartetto dell'Angelicum, se non per dilatare l'esperienza Area? Le cose singole corrispondono alle passioni di ognuno (le « miserie personali ») e contemporaneamente si fa un passo in avanti. Si producono cose che si sentiranno magari in un prossimo disco. Mi sembra fondamentale superare il collettivo stabile che decisamente non esiste più.

A proposito sto cercando di programmare una tournee con Lacy per la fine di marzo; come vedi voglio proporre un confronto tra due esperienze completamente diverse, senza prime donne, alla pari; Lacy ha già scritto delle cose per me e io ho già abbozzato brani da eseguire assieme, improvviseremo anche naturalmente.

Sento molto il bisogno di questi confronti visto che mi muovo in un campo molto particolare, in cui mancano persone che facciano una ricerca parallela, almeno in Italia, ed è quasi impossibile trovare documentazioni di ciò che si fa all'estero(i dischi della Monk, di Joan La Barbara sono introvabili).

D. - Gli Area non suonano abbastanza, l'organizzazione di una tournee è cosa difficilissima, anche la prossima sarà autogestita, perché tutto questo?


R.- Questo nasce da un discorso politico evidentemente, e da una crisi economica: sono tutti fermi, non solo gruppi come noi, ma anche gruppi commerciali, come il Banco, per non parlare di chi fa jazz o musica contemporanea...

Da sempre c'è stato un problema invernale, ma quest'anno è una cosa incredibile, non riusciamo a concludere la programmazione della prossima tournee.

Ad esempio il Banco, con alle spalle Zard, su 25 date ne fa 15 nei locali con il guadagno assicurato; Area su 25 date fa 3 locali. Il circuito alternativo, poi, non esiste più, si è sgretolato completamente, ha subito delle mazzate economiche incredibili; tutti i gruppi extraparlamentari hanno dei problemi, è come il dopo-sessantotto.

Dunque, per tornare al discorso di prima, noi aspettiamo di poter fare sicuramente questi 3 o 4 locali, incassare gli anticipi, e con questi autogestirci il resto: quindi è un punto interrogativo, un azzardo continuo.

 
R. Masotti Tratto da GONG marzo 1977